distorsioni anamorfiche laterali 2

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Riprese con 12-24 sigma: la foto p è al centro, la foto a all’estremità della proiezione (110° orizzontali complessivi. quindi spostamento di 55° dal centro)

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Qui la foto a è al centro, la foto s ai bordi estremi (110° orizzontali complessivi. quindi spostamento di 55° dal centro)

Perché succede tutto questo? presto lo spiegherò!

(Grazie a Massimo Napoli) a presto, Giacomo

 

Considerazioni d’ottobre: divagazioni sulla fotografia

Quando si guarda una fotografia, si stabilisce in modo ovvio e immediato che da qualche parte del mondo quello che è lì riprodotto debba esistere, o debba essere esistito. In questa ‘suggestione’ di realtà possibile sta la forza della fotografia.

Quella che guardiamo non ci sembra infatti un’invenzione di qualcuno (come succede invece con la pittura o il disegno), piuttosto una ‘registrazione’ meccanica e fedele del reale, ottenuta senza che vi sia stato un intervento manuale diretto da parte di chi l’ha ‘scattata’. Quest’ultimo, almeno così crediamo, potrà magari attraverso qualche ‘trucco’ aver deformato, alterato il ‘reale’, ma non può esserselo inventato dal nulla.

Ma come facciamo a stabilire che l’immagine che stiamo osservando è una fotografia? Principalmente in base alla sua ‘analogia’ percettiva con una nostra esperienza ‘diretta’ possibile, valutando cioè in modo intuitivo la sua appropriatezza ‘tonale’ e coerenza ottico geometrica: sarebbe a dire la sua capacità di rimandare a delle qualità tattili e spaziali plausibili, per l’appunto ‘analoghe’ alla nostra esperienza visiva di un ‘reale’ eventuale e/o possibile.

Attenzione: un osservatore dotato di facoltà percettive e mentali normali, si accorgerà ovviamente che quella che ha di fronte non è la realtà, bensì una sua supposta ‘riproduzione’, più o meno fedele che sia.

E’ qui che succede (può succedere) il paradossale prodigio: proprio quando siamo consapevoli che quella che abbiamo di fronte è una fotografia, scatta la trappola. Cadiamo così all’improvviso -mani e piedi- in quella ‘buca illusionistica’ che è stata preparata per noi, e cominciamo ad operare delle congetture su quanto nella fotografia è rappresentato. Attribuiamo –pur se consapevoli della potenziale ‘mendacia’ del mezzo- a quello che stiamo ‘vedendo’ caratteristiche ‘analoghe’ alle cose che fanno parte della nostra esperienza ‘diretta’ del nostro mondo percettivo –spaziale e ‘tattile’- reale.

Non è poi così importante che quelle caratteristiche che si è portati ad attribuire agli ‘oggetti’ rappresentati nella fotografia siano effettivamente corrispondenti al vero (a meno che non ci si trovi in un tribunale), lo è molto di più che l’osservatore ‘creda’ di aver capito, e non debba dunque affaticarsi – magari senza successo- ad identificare quello che è incluso nel ‘campo’ grafico della fotografia.

Le fotografie, infatti, risultano tanto più gradevoli e quindi efficaci quanto più sembrino rispondere facilmente agli interrogativi che l’osservatore naturalmente si pone: chi o cosa c’è nella fotografia? Dove si trova? Cosa sta succedendo? E così via.

Le forme ambigue, di difficile interpretazione, disturbano. L’osservatore ne è infastidito come lo sarebbe chi cercasse di ascoltare una persona che parla in modo poco chiaro, farfugliando frasi sconnesse in mezzo ad un frastuono assordante: è ovvio che dopo un po’ l’attenzione viene meno, e con quella la voglia di fare la fatica necessaria per interpretare quanto viene detto, per quanto interessante potesse sembrare inizialmente.

Le fotografie possono essere considerate trappole illusionistiche: proprio in questa loro caratteristica e potenzialità si trova il loro punto di forza, il cosiddetto ‘specifico’ fotografico.

Una fotografia dovrebbe permettere all’osservatore, una volta guadagnata la sua ‘attenzione’, una sua facile interpretazione ‘formale’, per farlo più utilmente soffermare sul ‘significato’ che quella vorrebbe veicolare, o permettere una migliore ‘trasmissione’ delle informazioni. Oppure, per lo meno, il tempo dedicato all’interpretazione di un’immagine complessa dal punto di vista grafico, dovrebbe prima o poi essere premiato. Dopo una lunga ‘contemplazione’ l’osservatore deve pur ottenere qualche risultato: un’informazione maggiore proporzionata al tempo dedicato? Un’emozione sempre crescente? Un appagamento estetico?

Una ‘buona’ fotografia – cioè che sia armoniosa, pulita e ben strutturata- nella quale tutto ciò che si trova al suo interno trovi una spiegazione e un senso, è più appagante e si tenderà quindi a dedicargli più tempo e attenzione: nei casi più riusciti le immagini fotografiche possono quasi ‘ipnotizzare’ chi le guarda, questi si attarda e non riesce quasi più a staccare lo sguardo che continua a ‘danzare’ eccitato ed incuriosito da una parte all’altra dell’immagine.

Una fotografia ‘bilanciata’, con un certo ordine formale, in virtù anche della sua attraente ‘piacevolezza’, sarà senza dubbio una ‘trappola illusionistica’ nella quale sarà più probabile far cadere l’attenzione dell’osservatore, facendogli dimenticare la sua bidimensionalità, la sua staticità, il suo essere limitata da dei ‘bordi’ o perfino –nel caso- l’assenza del colore.

Per poter costruire delle buone fotografie, ovvero delle trappole illusionistiche efficaci, occorre partire dalla consapevolezza che la fotografia ha un suo proprio linguaggio. Un linguaggio visivo che usa dei codici e delle ‘forme simboliche’ sue proprie. Di questo linguaggio fanno parte, a mio parere, le scelte tecniche fondamentali: tempo di posa, diaframma, messa fuoco ecc. Affinché queste scelte siano effettivamente tali, e non siano degli eventi casuali o determinati -a monte- da criteri altrui, bisogna conoscere e impadronirsi della ‘tecnica’ fotografica, in tutte le sue declinazioni.

Cosa voglio dire? spiegherò meglio la mia posizione più avanti, nel corso della vita di questo Blog, per il momento dirò semplicemente che per me la tecnica è un tutt’uno con l’espressione: la tecnica fotografica è infatti il presupposto indispensabile della fotografia: o ci pensiamo noi o ci dovremo affidare alle scelte della nostra fotocamera, o, come dicevo, a quelle scelte fatte ‘a monte’ da chi l’ha progettata. Oppure, e sarebbe una scelta scellerata, ci potremo accontentare di considerare la pratica fotografica come un gioco d’azzardo –una specie di slot machine- , restando in attesa -spesso lunga o vana- di uno scatto fortunato.

La conoscenza del mezzo tecnico è proposta da me come una fonte di libertà espressiva, una possibilità di emancipazione della propria creatività, e non -come spesso viene intesa da molti ‘artisti fotografi’- un ‘male necessario’, quasi fosse una parte afflittiva e poco divertente della pratica fotografica.

Certo, è meglio essere chiari, per me la tecnica non riguarda solo quelle variabili classiche –tipo: tempo, diaframma, fuoco ecc. – ma include anche, ad esempio, la ‘composizione’, l’inquadratura, la scelta del momento dello scatto, e via discorrendo. Ma, secondo me, persino la scelta stessa di una fotocamera o di un’altra -così come quella di un obiettivo-, ha un influenza determinate sulle nostre fotografie, e dunque sui risultati estetico/espressivi.

Solo avendo presente questo, per così dire, ‘Diagramma di flusso’ otterremo dei buoni risultati: un percorso virtuoso che ci conduca dai buoni propositi agli esiti auspicati.

Non vi stupirete, detto tutto questo, se nel tentare di disegnare questa ‘mappa concettuale’ riguardo alla fotografia troverete nel mio Blog un alternarsi di pagine dedicate a disquisizioni più meno teoriche (come quella che state leggendo), con altre di schede tecniche, fino ad arrivare ai test e alle recensioni di attrezzatura fotografica.

Piano piano, inoltre, andrò inserendo una piccola antologia delle mie fotografie ‘personali’.

A presto! Giacomo


Numero lamelle del diaframma primo test: Nikkor-S 1:2.8 f=3,5cm con nove e sei lamelle

Ho fatto una prima prova confrontando due obiettivi identici come schema ottico ma con lamelle del diaframma differenti. Precisamente due Nikkor-S 1:2.8 f=3,5cm. Questi:

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Come potete vedere dalla prima foto il diaframma è diverso, dalla seconda si vede come si tratti di due obiettivi identici (se si fa eccezione delle condizioni). Gli obiettivi mi sono stati gentilmente prestati dal negozio M&S http://www.msmaterialefotografico.it/

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Questa la scena messa a fuoco correttamente. In questo caso è stato usato un Nikkor Ai 35/2. Serve solo per farvi identificare i soggetti, naturalmente. Le immagini che seguono sono scattate con i due Nikkor-S puntati su soggetti distanti (la cupola si trova a circa 600 metri, l’edificio alle sue spalle -Villa Medici- a più o meno il doppio della distanza) ma con messa fuoco a 30 cm (la minima)  a vari diaframmi f/ 16, f/8 e f/4.

ecco le prime due:

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La prima è con sei lamelle, la seconda con nove. Entrambe a f/16. Continuiamo:

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35-nove-lamelle-8

Per le foto qui sopra sempre lo stesso ordine: sei lamelle prima, poi nove. f/8. Quelle sotto sono a f/4:

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Guardatele attentamente. Domani le commenterò. Fatemi intanto sapere voi cosa ve ne sembra…qui sotto!

 

Numero di lamelle del diaframma e loro conseguenze 3

Prima di andare avanti, voglio dirvi il perché di questa mia attenzione speciale per i primi quattro Nikkor. E’ meglio farlo, prima che i miei lettori si stufino delle mie elucubrazioni ‘teoriche’. Intanto, sappiate che questo scritto altro non è se non una presentazione di un ‘test’ che ho intenzione di fare (lo farò comunque, tuttavia qualche incoraggiante commento non guasterebbe). Voglio verificare mediante delle prove pratiche quanto il numero di lamelle del diaframma influisca sulla resa di un obiettivo, in particolare sullo ‘sfocato’, ovvero, come taluni amano definirlo, il famoso ‘BOKEH’. Siccome, come dicevo prima, i Nikkor sono un caso straordinario -essendo stati prodotti in due versioni con schema identico, ma con diverso numero di lamelle- ci permettono di valutare su quattro focali diverse, l’effettiva differenza di resa in funzione dell’aumentare -o diminuire, nel nostro caso- del numero delle lamelle.

I criteri di valutazione della resa dello sfocato degli obiettivi sono molto vari, e certamente sono cambiati negli anni. Infatti, si leggono e ascoltano pareri diversi e spesso contrastanti, circa la resa di questo o quell’obiettivo. Dal mio punto di vista, c’è molta confusione, dovuta innanzitutto alla persistenza di perniciosi equivoci, quando non alla più crassa ignoranza.

Il risultato finale di una ripresa fotografica può essere valutato infatti secondo criteri ‘estetici’ -soggettivi o più o meno condivisi- oppure secondo criteri di ‘massima informazione’. Se si considera la fotocamera uno strumento di rilevamento e registrazione di informazioni -come nel caso dell’uso della fotografia per finalità scientifiche- , è evidente che lo sfocato migliore sarà quello che permetterà di discernere meglio i dettagli, consentendo inferenze attendibili sul soggetto ripreso. Mi spiego: se ad esempio scattiamo una fotografia il cui soggetto sia un bosco in autunno per valutare quante foglie degli alberi siano diventate gialle (o rosse), è chiaro che a parità di diaframma più riusciremo a distinguere una foglia dall’altra meglio sarà. Se invece puntiamo ad ottenere dalla ripresa del bosco un’immagine ‘poetica’ e il più possibile gradevole, una resa aspra e nervosa dello sfocato potrà infastidire -quand’anche conducesse ad una maggior informazione-, e sarà preferibile al suo posto una resa morbida e soffusa, ossia ciò che si usa definire ‘BOKEH’. La stessa cosa succederebbe se dovessimo fotografare un prato fiorito – o un singolo fiore, con sullo sfondo altri fiori- per vedere il grado di infezione di qualche parassita, oppure cercassimo un’immagine emozionante e suggestiva del concetto ideale di ‘primavera’. Un’altro esempio possibile, ancora più chiaro, è quello della ripresa di un volto: insomma, un ritratto, cioè uno dei generi fotografici più praticati e amati. Se siamo dei dermatologi o magari dei chirurghi plastici, nel riprendere il viso di una signora cercheremo di esaltare il più possibile la sua ‘epidermide’ con le relative variazioni di colore e condizione, per poter fare una ‘diagnosi’ per un difetto estetico -le rughe, ad esempio- o una ‘patologia’ -magari la ‘couperose’-. Se invece, della suddetta signora siamo mariti o fidanzati, è certo che se ci attenessimo agli stessi criteri ‘medicali’, andremo incontro a risultati estetici deludenti per noi, e probabilmente inaccettabili per lei (persino esiziali per la continuità del rapporto). Gli esempi potrebbero continuare, ma credo che ci siamo capiti.

Con gli esempi precedenti ho voluto ricordare come un eventuale confronto tra la resa dello sfocato di due obiettivi, stabilendo quale sia il migliore, debba  prima di tutto stabilire cosa si vuole ottenere. Anche senza voler fare affermazioni troppo nette, si può dire che spesso la massima resa sul ‘piano di fuoco’ non si accompagna ad una altrettanto buona resa dello sfocato. D’altra parte, bisogna pure mettersi d’accordo su cosa intendiamo con fuori fuoco. Oggi, con il digitale, il concetto di ‘profondità di campo’ è cambiato in funzione della risoluzione del sensore, per ragioni che non qui il caso di ricordare (lo farò in futuro, però), anche se non tutti se ne sono accorti. Per il momento mi servirò per comodità di discorso di un modello di profondità di campo teorico nel quale assumiamo il sensore (o pellicola) come dotato di risoluzione ‘infinita’, avendo dunque come limite solo quello posto dalle prestazioni ottiche dell’obiettivo: in altre parole, dalla qualità della ‘proiezione’ sul piano focale al di là della sua ‘registrazione’. Messa così, la faccenda secondo le leggi dell’ottica è chiara: se il nostro soggetto è tridimensionale la quasi totalità di ciò abbiamo ripreso -ovvero proiettato- è fuori fuoco, essendo il ‘piano di fuoco’ per l’appunto un piano, e non un qualcosa che si estenda in profondità. Però se il grado di sfocatura  è basso, se cioè siamo sotto la soglia del cosiddetto ‘circolo di confusione’, ovvero se siamo oltre la nostra capacità visiva di distinguere i dettagli minimi, anche ciò che è fuori fuoco ‘appare’ a fuoco e rientra quindi nella cosiddetta ‘profondità di campo’ . Quello che mi interessa qui indagare -più qualitativamente che quantitativamente- è però ciò che va dal ‘leggermente fuori fuoco’ -appena avvertibile come tale- al totalmente indistinto. Vorrei ricordare inoltre -en passant- come la profondità di campo degli obiettivi non sia determinata solo dalla focale e dal diaframma impostato, ma anche dallo schema dell’obiettivo. Detto in altri termini, due obiettivi 50mm di tipo diverso possono avere, sebbene settati alla stessa distanza di messa fuoco e a parità di diaframma, profondità di campo diversa. Riporto per curiosità le tabelle di profondità di campo ufficiali Nikon di tre diversi cinquanta:

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Le differenze sono minime ovviamente. Si tratta infatti di obiettivi simili -del tipo cosiddetto ‘doppio gauss- dallo schema quasi simmetrico. Fabbricati dalla stessa casa e in dotazione alla stessa fotocamera. Ciononostante il diverso ‘comportamento’ è ugualmente istruttivo, a mio parere. Come avrò modo spero di dimostrare, nel caso di obiettivi dallo schema di tipo diverso -per esempio un teleobiettivo confrontato con un lungo fuoco di pari focale, oppure un grandangolare simmetrico con un retrofocus- le differenze aumentano in modo vistoso. Per la cronaca le lamelle del diaframma di questi 50mm Nikkor Ais sono: sette per 1.4 e 1.8 e nove per il 50/1.2. E’ interessante osservare come il numero delle lamelle non sia indicato nella descrizione delle caratteristiche dei singoli obiettivi offerta nel catalogo generale Nikon 1992/93, da cui ho tratto la tabella: a dimostrazione della mutata attenzione nei confronti di questa caratteristica.

Continua…