Prima di andare avanti, voglio dirvi il perché di questa mia attenzione speciale per i primi quattro Nikkor. E’ meglio farlo, prima che i miei lettori si stufino delle mie elucubrazioni ‘teoriche’. Intanto, sappiate che questo scritto altro non è se non una presentazione di un ‘test’ che ho intenzione di fare (lo farò comunque, tuttavia qualche incoraggiante commento non guasterebbe). Voglio verificare mediante delle prove pratiche quanto il numero di lamelle del diaframma influisca sulla resa di un obiettivo, in particolare sullo ‘sfocato’, ovvero, come taluni amano definirlo, il famoso ‘BOKEH’. Siccome, come dicevo prima, i Nikkor sono un caso straordinario -essendo stati prodotti in due versioni con schema identico, ma con diverso numero di lamelle- ci permettono di valutare su quattro focali diverse, l’effettiva differenza di resa in funzione dell’aumentare -o diminuire, nel nostro caso- del numero delle lamelle.
I criteri di valutazione della resa dello sfocato degli obiettivi sono molto vari, e certamente sono cambiati negli anni. Infatti, si leggono e ascoltano pareri diversi e spesso contrastanti, circa la resa di questo o quell’obiettivo. Dal mio punto di vista, c’è molta confusione, dovuta innanzitutto alla persistenza di perniciosi equivoci, quando non alla più crassa ignoranza.
Il risultato finale di una ripresa fotografica può essere valutato infatti secondo criteri ‘estetici’ -soggettivi o più o meno condivisi- oppure secondo criteri di ‘massima informazione’. Se si considera la fotocamera uno strumento di rilevamento e registrazione di informazioni -come nel caso dell’uso della fotografia per finalità scientifiche- , è evidente che lo sfocato migliore sarà quello che permetterà di discernere meglio i dettagli, consentendo inferenze attendibili sul soggetto ripreso. Mi spiego: se ad esempio scattiamo una fotografia il cui soggetto sia un bosco in autunno per valutare quante foglie degli alberi siano diventate gialle (o rosse), è chiaro che a parità di diaframma più riusciremo a distinguere una foglia dall’altra meglio sarà. Se invece puntiamo ad ottenere dalla ripresa del bosco un’immagine ‘poetica’ e il più possibile gradevole, una resa aspra e nervosa dello sfocato potrà infastidire -quand’anche conducesse ad una maggior informazione-, e sarà preferibile al suo posto una resa morbida e soffusa, ossia ciò che si usa definire ‘BOKEH’. La stessa cosa succederebbe se dovessimo fotografare un prato fiorito – o un singolo fiore, con sullo sfondo altri fiori- per vedere il grado di infezione di qualche parassita, oppure cercassimo un’immagine emozionante e suggestiva del concetto ideale di ‘primavera’. Un’altro esempio possibile, ancora più chiaro, è quello della ripresa di un volto: insomma, un ritratto, cioè uno dei generi fotografici più praticati e amati. Se siamo dei dermatologi o magari dei chirurghi plastici, nel riprendere il viso di una signora cercheremo di esaltare il più possibile la sua ‘epidermide’ con le relative variazioni di colore e condizione, per poter fare una ‘diagnosi’ per un difetto estetico -le rughe, ad esempio- o una ‘patologia’ -magari la ‘couperose’-. Se invece, della suddetta signora siamo mariti o fidanzati, è certo che se ci attenessimo agli stessi criteri ‘medicali’, andremo incontro a risultati estetici deludenti per noi, e probabilmente inaccettabili per lei (persino esiziali per la continuità del rapporto). Gli esempi potrebbero continuare, ma credo che ci siamo capiti.
Con gli esempi precedenti ho voluto ricordare come un eventuale confronto tra la resa dello sfocato di due obiettivi, stabilendo quale sia il migliore, debba prima di tutto stabilire cosa si vuole ottenere. Anche senza voler fare affermazioni troppo nette, si può dire che spesso la massima resa sul ‘piano di fuoco’ non si accompagna ad una altrettanto buona resa dello sfocato. D’altra parte, bisogna pure mettersi d’accordo su cosa intendiamo con fuori fuoco. Oggi, con il digitale, il concetto di ‘profondità di campo’ è cambiato in funzione della risoluzione del sensore, per ragioni che non qui il caso di ricordare (lo farò in futuro, però), anche se non tutti se ne sono accorti. Per il momento mi servirò per comodità di discorso di un modello di profondità di campo teorico nel quale assumiamo il sensore (o pellicola) come dotato di risoluzione ‘infinita’, avendo dunque come limite solo quello posto dalle prestazioni ottiche dell’obiettivo: in altre parole, dalla qualità della ‘proiezione’ sul piano focale al di là della sua ‘registrazione’. Messa così, la faccenda secondo le leggi dell’ottica è chiara: se il nostro soggetto è tridimensionale la quasi totalità di ciò abbiamo ripreso -ovvero proiettato- è fuori fuoco, essendo il ‘piano di fuoco’ per l’appunto un piano, e non un qualcosa che si estenda in profondità. Però se il grado di sfocatura è basso, se cioè siamo sotto la soglia del cosiddetto ‘circolo di confusione’, ovvero se siamo oltre la nostra capacità visiva di distinguere i dettagli minimi, anche ciò che è fuori fuoco ‘appare’ a fuoco e rientra quindi nella cosiddetta ‘profondità di campo’ . Quello che mi interessa qui indagare -più qualitativamente che quantitativamente- è però ciò che va dal ‘leggermente fuori fuoco’ -appena avvertibile come tale- al totalmente indistinto. Vorrei ricordare inoltre -en passant- come la profondità di campo degli obiettivi non sia determinata solo dalla focale e dal diaframma impostato, ma anche dallo schema dell’obiettivo. Detto in altri termini, due obiettivi 50mm di tipo diverso possono avere, sebbene settati alla stessa distanza di messa fuoco e a parità di diaframma, profondità di campo diversa. Riporto per curiosità le tabelle di profondità di campo ufficiali Nikon di tre diversi cinquanta:
Le differenze sono minime ovviamente. Si tratta infatti di obiettivi simili -del tipo cosiddetto ‘doppio gauss- dallo schema quasi simmetrico. Fabbricati dalla stessa casa e in dotazione alla stessa fotocamera. Ciononostante il diverso ‘comportamento’ è ugualmente istruttivo, a mio parere. Come avrò modo spero di dimostrare, nel caso di obiettivi dallo schema di tipo diverso -per esempio un teleobiettivo confrontato con un lungo fuoco di pari focale, oppure un grandangolare simmetrico con un retrofocus- le differenze aumentano in modo vistoso. Per la cronaca le lamelle del diaframma di questi 50mm Nikkor Ais sono: sette per 1.4 e 1.8 e nove per il 50/1.2. E’ interessante osservare come il numero delle lamelle non sia indicato nella descrizione delle caratteristiche dei singoli obiettivi offerta nel catalogo generale Nikon 1992/93, da cui ho tratto la tabella: a dimostrazione della mutata attenzione nei confronti di questa caratteristica.
Continua…